Editoriale per "Strumenti Politici".
Il festival di Sanremo ha posto l’accento sulle maggiori problematiche globali, prima fra tutte il conflitto nella Striscia di Gaza, dove circa 28 mila persone, la maggior parte civili e minori, sono stati uccisi dall’offensiva israeliana a partire dal 7 ottobre. Il cantante di origini tunisine, Ghali, dal palco del teatro Ariston, rispondendo ieri all'ambasciatore di Israele a Roma, Alon Bar, secondo cui il palcoscenico è “stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile” per il suo “stop al genocidio” durante la serata finale, ha affermato: “Non so cosa rispondere, mi dispiace tanto che abbia replicato in questo modo. Ci sarebbero state tante cose da dire”. “lo sono un musicista - ha aggiunto Ghali - e ho sempre parlato di questo da quando sono bambino. Da quando ho scritto le mie prime canzoni, a 13-14 anni, parlo di quello che sta succedendo. Non è dal 7 ottobre, questa cosa va avanti da un po'. Il fatto che lui parli così non va bene”.
E poi il problema di cui sempre più persone, compresi noi giornalisti, si sono stancati: l’autocensura che ci imponiamo per non essere etichettati come pazzi, terroristi e chi più ne ha più ne metta. “Continua questa politica del terrore – ha detto Ghali rispondendo alle critiche di Bar - la gente ha sempre più paura di dire ‘stop alla guerra’ e ‘stop al genocidio’.
Le persone sentono che perdono qualcosa se dicono ‘viva la pace’, non deve succedere questo. Ci sono i bambini di mezzo, io da bambino sognavo e ieri sono arrivato quarto a Sanremo. Quei bambini stanno morendo, chissà quante star, quanti dottori, quanti geni ci sono tra loro”. Il problema è proprio questo, la macchina propagandistica israeliana, così come gran parte dei media main stream, sono stati bravi a creare il collegamento Palestina, Hamas, Daesh e terrorismo, così che chiunque osi spendere una parola a sostegno della pace finisce automaticamente nelle file dei sovversivi. Ma le loro narrative non possono spegnere il sorriso di Hind Rajab, la bambina trovata morta pochi giorni fa, o dei paramedici Yusuf Zeino e Ahmed al-Madhoun della Mezzaluna rossa palestinese che avevano risposto alla sua telefonata di soccorso, anche loro rimasti uccisi.
Ecco il loro sorriso spazza via con tanta forza, tutte le sronzate che ci raccontano, impongono, o che almeno provano a farci credere. Intanto a Rafah, quella parte della Striscia di Gaza verso il confine egiziano, dove oltre 1 milione e mezzo di Palestinesi ha trovato rifugio, l’orrore più assoluto ha avuto inizio la scorsa notte con l’uccisione di almeno 100 persone. Così dopo essere stati bombardati, affamati, feriti e brutalizzati da Israele, i palestinesi si preparano a vivere l’ultima fase del genocidio che da mesi si consuma sotto ai nostri occhi e di cui, forse, ci vergogniamo anche a parlare. E di cui probabilmente l’Ambasciatore Baar non ha sentito notizia. Come non ha sentito parlare dello sfollamento di oltre l’85 percento della popolazione di Gaza, del ferimento di 68 mila persone e dei 126 giornalisti uccisi, gli ultimi due proprio ieri notte. Si chiamavano Alaa Hassan Al-Hams e Angham Ahmed Adwan. Sono morti per i continui bombardamenti nelle zone di Rafah e Jabalia.
Uccidere giornalisti, non è forse anche questo un tentativo di nascondere la verità? E alla fine Ghali aveva ragione, l’ambasciatore avrebbe potuto prendere la parola per dire altre cose. Per condannare, ad esempio, l’estremismo dei coloni ebrei in Cisgiordania, quelli recentemente sanzionati da alcuni Paesi europei e dagli Stati Uniti. Quelli appartenenti alla lista di sessanta organizzazioni dichiarati come gruppi terroristici dalla delegazione palestinese alla Lega Araba. Perché sì anche in Cisgiordania si muore. L’ultima vittima è Mohammed Al Natsheh, aveva quindici anni, ed è stato ucciso da proiettili in Al-Wad Street nella città vecchia della Gerusalemme occupata. Quindi è proprio il caso di dirlo: stop al genocidio, alla vendetta, alla violenza, alla censura e ad ogni tentativo di mistificare la realtà.