Di Vanessa Tomassini per “Strumenti Politici“.
Dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, lo scenario geopolitico internazionale è cambiato rapidamente diventando improvvisamente più pericoloso e mutabile. L’Europa, e l’Italia in particolare, sono state esposte, più di altre zone del mondo, ad una crisi degli approvvigionamenti energetici vista la loro forte dipendenza da Mosca. Ne parliamo in questa intervista a 360 gradi con l’Ambasciatore Maurizio Melani, professore straordinario di relazioni internazionali alla Link Campus University e in altre istituzioni di alta formazione dopo una lunga carriera diplomatica che lo ha portato, nella sua ultima parte, ad essere Direttore Generale al Ministero degli Esteri e precedentemente Ambasciatore in Iraq, al Comitato Politico e di Sicurezza dell’Unione Europea e in Etiopia. Un tema del quale in varie vesti si occupa attualmente è in particolare quello della geopolitica dell’energia.
Grazie, Ambasciatore, per aver accettato questa intervista. Come valuta l’azione del Governo Draghi nella ricerca di fonti alternative? Cosa attende gli Italiani nei mesi a venire?
“Credo che il Governo Draghi si sia mosso bene e tempestivamente, anche rispetto ad altri paesi europei, per ridurre drasticamente la dipendenza italiana dal gas russo scesa in pochi mesi da circa il 40% del nostro fabbisogno a poco più del 20%. Sono da subito aumentate quelle via tubo dall’Algeria, sono in corso di aumento quelle dall’Azerbaijan attraverso il TAP e dalla Libia, compatibilmente con le condizioni del paese, attraverso il Greenstream. Sono stati conclusi accordi per l’importazione di gas liquefatto dal Qatar, da vari paesi africani, dagli Stati Uniti e dal Canada per la cui realizzazione occorre potenziare le nostre capacità di rigassificazione tenendo tuttavia conto dei maggiori costi che queste forniture comportano rispetto a quelle via tubo E’ da auspicare a questo riguardo che siano rapidamente risolti i problemi invocati da varie amministrazioni locali e dalle popolazioni direttamente interessate, coinvolgendole nei processi decisionali, rimuovendo così gli ostacoli che si frappongono a tale indispensabile sviluppo in questa fase della transizione energetica. Sono state inoltre adottate misure per la crescita dell’impiego di fonti di energia rinnovabile che dovranno progressivamente sostituire quelle fossili, rimuovendo anche qui vari ostacoli al loro potenziamento. Nelle intese raggiunte con i paesi del Nord Africa è infine previsto un sostegno allo sviluppo di fonti rinnovabili e della produzione di idrogeno anche in vista dell’esportazione dell’energia così prodotta verso l’Europa attraverso l’Italia. Riguardo a quanto ci aspetta nei prossimi mesi non vi è dubbio che la crisi energetica, accentuata dalla guerra in Ucraina, determinerà notevoli difficoltà per le famiglie e per il settore produttivo. Ne deriva l’esigenza di una riduzione selettiva dei consumi da realizzare soprattutto tramite un più incisivo efficientamento energetico in conformità alle decisioni adottate in ambito europeo. I livelli di stoccaggio di gas raggiunti in questi mesi dovrebbero aiutare a gestire i problemi che dovremo affrontare”.
Vede il futuro di Draghi ancora in Italia, come nuovo presidente della Repubblica o presidente del Consiglio, oppure in un organismo internazionale come le Nazioni Unite?
“Il futuro del Presidente Draghi dipenderà in buona parte da quelli che saranno gli esiti delle imminenti elezioni oltre che dalla sua volontà. Quel che posso dire è che il suo indiscusso prestigio internazionale lo rendono una risorsa che potrà dare, a seconda delle circostanze, preziosissimi contributi in Italia, in Europa e al livello globale”.
L’Europa ha imposto alla Russia diverse misure di deterrenza. Le sanzioni economiche hanno sortito gli effetti auspicati?
“Che le sanzioni abbiano rilevanti effetti sulla Russia lo dice lo stesso Governo di Mosca che si adopera in tutte le sedi per la loro rimozione. Secondo un approfondito studio statistico interdisciplinare diretto dalla Yale University con la partecipazione di numerose altre Università e centri di ricerca economici, le sanzioni stanno già ora incidendo pesantemente e lo saranno sempre di più su tutti gli aspetti dell’economia russa: interscambio con l’estero, produzione industriale, accesso ai mercati di capitale e bilancio dello Stato. Le importazioni russe dall’estero (beni, servizi, tecnologia), che erano pari al 20% del PIL russo, sono diminuite del 50% dall’inizio del conflitto con effetti negativi sul mercato interno, sull’industria, inclusa quella militare e quindi con rilevanti conseguenze sulla capacità e la sostenibilità dell’azione offensiva della Russia. Il fenomeno non riguarda solamente i Paesi che hanno imposto le sanzioni. Anche molte imprese di Paesi terzi evitano di commerciare con la Russia per il timore di incorrere in sanzioni secondarie nei mercati occidentali, per loro molto più importanti di quello russo. Perfino le importazioni dalla Cina sono diminuite del 50% dall’inizio dell’anno. Le sanzioni andranno comunque modulate in funzione dei comportamenti russi, ben sapendo che una volta posto fine all’aggressione e all’occupazione illegale di territori ucraini occorrerà coinvolgere la Russia in una rinnovata architettura di sicurezza in Europa che tenga conto degli interessi e delle sensibilità di tutti gli attori”.
Come l’aggressione russa all’Ucraina ha cambiato il quadrante geopolitico nell’area del Mediterraneo?
“L’offensiva russa non riguarda soltanto una revisione degli assetti determinatisi nell’Europa centrale e orientale dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Essa rientra anche nel quadro della secolare aspirazione di Mosca, dai tempi zaristi, di controllare il Mar Nero e avere una presenza stabile nel Mediterraneo che l’URSS aveva parzialmente raggiunto e che ora Putin vuole riaffermare, dopo una eclissi trentennale, avendo come punti di forza la Siria e la Libia. In questo sforzo si è sempre trovata di fronte la Turchia e le potenze europee che ne sostenevano l’integrità. Si trattava alternativamente di Gran Bretagna, Francia, Regno di Sardegna/Italia e poi Stati Uniti (ricordiamo la guerra di Crimea del 1854 e poi il ruolo turco nella NATO durante la guerra fredda), o della Germania (ricordiamo la prima guerra mondiale), in funzione dei più vasti equilibri europei e delle sottostanti mutevoli alleanze. Nell’equazione mediterranea ha oggi assunto un rilievo di primo piano la questione energetica. Nel Mediterraneo Orientale si scoprono riserve sempre più vaste di gas. Società petrolifere di Italia, Francia, Stati Uniti, Israele ed Egitto vi stanno investendo anche per ridurre le già menzionate dipendenze europee dal gas russo. La Turchia vuole modificare a suo favore assetti di sovranità marittima dai quali si ritiene penalizzata a favore di Grecia e Cipro e profitta della guerra in Ucraina per dipanare una tela diplomatica che da un lato non riconosce l’annessione russa della Crimea per le ragioni già evidenziate, ma da un altro sviluppa una politica multivettoriale che coinvolge la stessa Russia, Israele, la Siria, l’Iran, altri paesi mediorientali e la NATO con l’obiettivo di ricostruire una sua dimensione imperiale dal Mediterraneo al Medio Oriente all”Asia Centrale le cui contraddizioni potrebbero tuttavia diventare insostenibili. Questa azione si è comunque rivelata utile per risolvere almeno per ora la questione del deflusso di cereali dal Mar Nero il cui arresto a causa della guerra aveva posto le premesse di gravi processi di impoverimento delle popolazioni nordafricane e mediorientali e quindi di instabilità e peggioramento delle condizioni di sicurezza nella regione”.
In una nostra recente conversazione, il direttore di Human Rights Watch Omar Shakir, accusa Israele di crimini contro l’umanità, asserendo che gli accordi di Abramo raggiunti da Israele con un numero di Paesi arabi ha talvolta peggiorato la situazione dei diritti umani sul campo per milioni di palestinesi. Cosa ne pensa, dobbiamo attenderci un’escalation anche da quel fronte?
“Gli Accordi di Abramo sono forse il solo lascito positivo dell’Amministrazione Trump al di là della volontà di chi li aveva promossi. Un miglioramento dei rapporti tra Israele e paesi arabi deve essere tuttavia anche un fattore per l’avvio a soluzione della questione palestinese. Purtroppo le politiche dei Governi israeliani guidati dal Likud, incoraggiando gli insediamenti nei territori occupati, hanno posto forti ostacoli a quella dei due Stati basata sugli accordi di Oslo di cui erano stati protagonisti Isaak Rabin e Yasser Arafat, sull’iniziativa della Lega Araba del 2002 e sulle proposte del Quartetto formato da Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia. Gli accordi di Abramo hanno comunque bloccato le annessioni di aree nei territori occupati volute da Netanyahu con l’avallo di Trump, aree che dovrebbero essere parte del previsto Stato palestinese. Intanto, se non si bloccano e non si invertono gli insediamenti e se non sono riconosciuti e realizzati i diritti dei palestinesi, crescono i consensi e comunque gli spazi per movimenti sempre più estremisti, strumentalizzati e sostenuti da potenze esterne come si è visto recentemente a Gaza con crescenti ulteriori rischi per la sicurezza dell’intera regione”.
Russia e Turchia hanno ancora una presenza militare in Libia. Cosa significa questo per l’Europa e l’Italia in particolare?
“Paradossalmente le presenze militari turche e russe costituiscono in questa fase un fattore di equilibrio e di freno delle azioni di milizie contrapposte schierate rispettivamente con il Governo del Primo Ministro Dabeiba, riconosciuto dalle Nazioni Unite, e quello insediato con dubbie modalità dal Parlamento di Tobruk. Tale funzione avrebbe dovuto essere svolta da altre forze ma così non è stato, ed il fatto che invece lo siano quelle turche e russe non corrisponde agli interessi dell’Italia e dell’Europa e non è funzionale ad una sostenibile riunificazione e stabilizzazione definitiva del paese”.
La Libia sta cercando di aumentare la produzione petrolifera. Che peso hanno Oil e Gas sulla questione della legittimità politica dei due governi apparentemente rivali nel Paese nordafricano ed in generale nelle scelte della Comunità Internazionale?
“La National Oil Company continua a funzionare regolarmente e a fornire risorse alle diverse fazioni. Periodicamente, soprattutto nell’est del paese, interruzioni di produzioni e flussi di esportazioni, sono poste in essere nel quadro di un continuo negoziato in tale contesto. Ciò che si svolge senza interruzioni è il flusso di gas verso l’Italia garantito dall’ENI che in joint venture con la NOC soddisfa anche gran parte dei bisogni energetici del paese. E ciò costituisce un formidabile fattore di forza della nostra società petrolifera anche sul piano politico”.
Erdogan considera il Donbass già russo nelle tratte aeree, non crede sia necessario un chiarimento con il leader turco?
“Erdogan muta frequentemente la propria comunicazione in funzione delle circostanze. Recentemente ha affermato di non riconoscere l’annessione russa della Crimea che deve tornare all’Ucraina, coerentemente con una secolare impostazione strategica turca descritta all’inizio di questa intervista”.
Cosa ne pensa del viaggio della Pelosi a Taiwan? Inutile provocazione o visita necessaria?
“Poteva essere evitata. Non ha aggiunto nulla di sostanziale alla “One China policy” e all’opposizione all’uso della forza per la riunificazione, corroborata da una adeguata deterrenza, ma ha determinato un aumento della tensione e dei rischi di intervento militare cinese, quale che sia la forma, di cui non si sentiva certamente il bisogno”.
Lei conosce bene l’Africa e probabilmente anche l’Iraq. Cosa ricorda dello scandalo dei falsi documenti rinvenuti nel 2002 e legati a presunti contatti tra Niger e Iraq in merito alla fornitura di uranio per la fabbricazione di armi nucleari, cd Nigergate? Quanto pesa la disinformazione in un conflitto?
“Non conosco i dettagli della vicenda Nigergate e quindi non sono in grado di fornire informazioni o valutazioni a questo riguardo. Quel che posso dire è che, come riconosciuto a posteriori dallo stesso Segretario di Stato dell’epoca Colin Powel, nell’azione comunicativa diretta a giustificare l’intervento militare in Iraq vi erano evidenti elementi di disinformazione. La disinformazione è da sempre usata nei conflitti o attorno ai conflitti. Non è detto che sia sempre efficace rispetto agli obiettivi perseguiti. Lo può essere nelle fasi iniziali ma spesso si ritorce contro chi la utilizza”.
La NATO oggi si riafferma come mezzo di difesa comune dopo anni in cui l’Alleanza era stata data come “morta”. L’organizzazione tuttavia non ha mai fatto mea culpa per gli errori commessi in passato in particolare nel 2011 in Libia ed altri scenari di conflitto. Non crede sarebbe necessario, per i valori delle democrazie occidentali, per la credibilità dell’Alleanza stessa agli occhi dei cittadini che difende, nonché per gli stessi uomini e donne che hanno servito con lealtà e sacrificio, ammettere e compensare le vittime di tali “errori”?
“La NATO presentava rischi di “morte cerebrale”, secondo le parole del Presidente Macron, quando il Presidente Trump ne metteva in dubbio la necessità rispetto a quelli che lui considerava gli interessi americani (America first!) e parallelamente al Presidente Putin favoriva con i suoi comportamenti la disgregazione della coesione occidentale negli ambiti europeo e transatlantico. In Libia la NATO assunse un ruolo di direzione strategica e comando e controllo su richiesta dell’Italia per evitare che lo svolgimento di tale compito da parte della Francia e della Gran Bretagna, che avevano lanciato l’intervento, potesse mettere in pericolo interessi italiani. In Afghanistan la NATO è subentrata nel comando di una missione autorizzata unanimemente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dopo l’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono, con una partecipazione italiana approvata da tutte le forze parlamentari. I “danni collaterali” con vittime tra la popolazione civile furono determinati soprattutto dalla componente americana della missione. In Iraq non vi è stata una partecipazione della NATO con l’esclusione di una missione di addestramento della Polizia Nazionale a guida italiana e condotta dai Carabinieri. In Bosnia la NATO, poi sostituita dall’UE, ha fornito la cornice di sicurezza per l’attuazione degli accordi di Dayton che hanno posto fine alle ostilità. Una azione discutibile è stata quella dei bombardamenti sulla Serbia per paralizzarne le capacità offensive in Kosovo. A parte eventualmente questo ultimo evento non vedo su cosa la NATO in quanto tale dovrebbe fare mea culpa. Concordo che le vittime civili vadano compensate, come in parte avviene, ma in modo insufficiente rispetto ai dolori arrecati e ai danni provocati anche all’immagine e alla credibilità dell’Occidente”.
Biografia dell’intervistato
L’Ambasciatore Maurizio Melani è Professore Straordinario di Relazioni Internazionali alla Link Campus University e svolge attività di docenza anche presso altre istituzioni di alta formazione. È stato Consigliere di Amministrazione della Agenzia ICE per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (2012-2016), Direttore Generale per la promozione del sistema paese al Ministero degli Esteri (2010-2012) e precedentemente Ambasciatore in Iraq (2006-2010), Rappresentante italiano nel Comitato Politico e di Sicurezza dell’Unione Europea (2001-2006), Direttore Generale per l’Africa (1999-2001) e Ambasciatore in Etiopia (1993-1998). A Roma ha tra l’altro diretto l’Ufficio per i rapporti con il Parlamento nel Gabinetto del Ministro degli Esteri (1989-1993).Precedentemente ha seguito sotto diverse ottiche temi africani, migratori e dello sviluppo al Ministero, anche quale Capo della Segreteria del Sottosegretario competente, e alla Rappresentanza presso la Comunità Economica Europea.È stato all’inizio della sua carriera diplomatica, iniziata nel 1972, nelle Ambasciate in Tanzania, nel Regno Unito e in Etiopia. Nelle sue responsabilità in Italia e in sedi all’estero bilaterali e multilaterali è stato a più riprese impegnato in attività di capacity and institutional building, di risoluzione di situazioni conflittuali e di riconciliazione nazionale attraverso la definizione e il buon funzionamento di istituzioni e di strutture di sicurezza inclusive.È autore dei manuali “Lezioni di governance politica ed economica internazionale” e “Politiche internazionali su energia e cambiamenti climatici” con edizione anche in inglese, nonché di saggi, relazioni e articoli su temi di politica estera (integrazione europea, Medio Oriente, Africa, questioni migratorie, sicurezza, gestione delle crisi ed economia internazionale). E’ Co-Presidente del Circolo di Studi Diplomatici e nella governance di società e organizzazioni “profit” e “non profit”.